L'aumento di pressione del sangue legato all'alta quota è uno dei sintomi del cosiddetto mal di montagna, che indica una sofferenza organica dovuta alla diminuzione di ossigeno che il nostro corpo avverte salendo di altitudine. Questo disturbo può verificarsi anche a livello del mare, nelle persone che soffrono ad esempio di apnee notturne e si trovano temporaneamente in ipossia, ovvero senza un giusto apporto di ossigeno per la respirazione, facilitando la comparsa di ipertensione. Per lo studio, i ricercatori si sono uniti a una spedizione di 47 volontari per raggiungere il campo base sud del Monte Everest, situato a un'altitudine 5400 metri. Prima però della meta finale, il gruppo è partito da Milano (altitudine 120 metri) in direzione Kathmandu, in Nepal (1355 metri), dove tutti i componenti hanno soggiornato per 3 giorni. Poi, restando in Nepal, si sono diretti a Namche Bazaar (3400 metri) dove hanno sostato altri 3 giorni prima di passare i successivi 5 giorni a scalare il campo base dell'Everest dove hanno pernottato per 12 giorni.
Durante la spedizione, la pressione arteriosa è stata misurata ogni mattina. I valori di pressione sono stati tenuti sotto controllo utilizzando anche un dispositivo in grado di rilevarla ogni 15-20 minuti nell'arco delle 24h, così da fornire tutti i dati completi per il "monitoraggio dinamico della pressione", un metodo molto accurato per valutare i reali livelli pressori. Con il monitoraggio dinamico si può misurare anche la pressione arteriosa notturna, che normalmente è inferiore del 10-20 per cento rispetto ai valori diurni, così da valutare la prognosi rispetto ad altri parametri pressori. Risultato? La mancata riduzione della pressione nella notte, nonostante il sonno, può essere interpretata scientificamente come un'alterazione nella regolazione della funzione cardiaca. I risultati mostrano anche come nei volontari la pressione aumenti significativamente in quota rispetto ai valori iniziali, soprattutto nelle ore notturne.
Lo studio fornisce la prima dimostrazione sistematica di legame tra altitudine e rialzo pressorio, ovvero con l'aumentare della quota cresce progressivamente e marcatamente la pressione arteriosa. Si è rilevato che l'incremento di pressione avvenga immediatamente al raggiungimento dell'alta quota e perduri durante l'esposizione prolungata all'altitudine nell'arco delle 24 ore; l'aumento di pressione è poi maggiore nelle ore notturne, con attenuazione del fisiologico calo notturno della pressione. I risultati della ricerca sono stati fondamentali nell'ambito della comunità scientifica perché hanno permesso di istruire le persone con problemi cardiovascolari su tutte le precauzioni da mettere in atto in alta quota, sia per motivi lavorativi che di puro svago. Inoltre, lo studio sottolinea l'importanza del monitoraggio costante della propria pressione.
Ma non è finita qui: lo studio, coordinato dall'Università Milano Bicocca, ha infine dimostrato che un farmaco comunemente usato per abbassare la pressione sanguigna sia efficace nel contrastare gli effetti dell'altitudine sulla pressione solo fino a 3400 metri ma perda invece il suo potere terapeutico a 5400 metri sul livello del mare, altezza del campo base dell'Everest.