Spesso, quando viene diagnosticato il diabete, la prima reazione è il trauma e la negazione della realtà. Uno dei comportamenti più frequenti osservati è un tipo di sindrome di incoscienza in cui si vive come se la patologia non ci fosse e si rifiuta qualsiasi terapia. Una seconda fase può essere quella di ribellione al diabete. Domande come "Perché doveva capitare proprio a me?" "Perché al mio bambino?" "Che cosa ho fatto di male?" sono naturali espressioni del disagio indotto da questa patologia.
La terza fase, secondo molte ricerche di psicologia medica, è quella di patteggiamento e di accettazione parziale della realtà. In questo periodo il paziente segue la cura ma applicando solo alcuni e non tutti i suggerimenti terapeutici prescritti dal medico. In questa fase gli psicologi hanno evidenziato ancora una componente residuale del periodo di rifiuto e ribellione. Il paziente, in altre parole, non aderisce ancora completamente alla terapia: una sorta di fuga dalla realtà che può avere un epilogo piuttosto amaro.
Il tentativo di sfuggire alla cura può indurre una fase di depressione dove prevalgono pessimismo, sfiducia in sé, isolamento ed eventualmente atteggiamenti di irascibilità e di aggressività verso tutto e tutti. In questo periodo le parole pesano come pietre e i minimi particolari possono avere per la persona un'importanza enorme: le parole del medico, degli infermieri, dei familiari assumono una notevole rilevanza e possono diventare occasione di speranza o, al contrario, di demoralizzazione.
L'ultima fase è quella dell'accettazione attiva del diabete che diventa il "mio diabete", un vero e proprio modo di vivere, uno stato di salute condizionato non più da una patologia su cui non si può esercitare alcun controllo. Come risultato si ottiene un buon equilibrio metabolico e quindi una prevenzione delle complicanze, attraverso l'integrazione armonica con l'equipe curante e l'adeguamento al regime terapeutico che viene così inserito negli schemi di comportamento quotidiani.